Circolo dei Libri

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L'anno della valanga

05dicembre
2016

Giovanni Orelli

Casagrande

La neve abita totalmente questo romanzo. Quando imbianca i prati della valle rende tutto candido e unito, annulla i segni dei confini, della "roba" che divide gli uomini. Quando si infittisce, diventa coltre misteriosa, quasi intima. Quando il manto cresce a dismisura, incute paura. "L'anno della valanga" fu l'esordio narrativo dello scrittore e fu il suo confronto con le radici che l'hanno generato. A suo modo, un romanzo di iniziazione: raccontato già con la tensione stilistica che appartiene da sempre, e oggi ancora, alla stoffa di Orelli. Siamo dunque nel 1951, l'anno delle valanghe. La minaccia cupa della disgrazia bianca incombe sulla valle Bedretto, che a un certo punto rimane isolata dal resto del paese, dal mondo. Le poche persone vivono la trama lenta e quotidiana della vita, fatta di spostamenti dentro cumuli di neve, soste all'osteria (vino, canti, l'allegria che mitiga l'ansia), cene quiete davanti ai focolari, parole, gesti, affetti diradati dentro stanze di legno dai soffitti bassi. Le mucche stanno nelle stalle, ci sono grandi silenzi, rotti dal basso continuo della fontana e da qualche cigolìo di porte, qualche voce sparsa. Il protagonista, Gionata, è la giovane controfigura del romanziere (che fu maestro di scuola lassù, prima di tuffarsi nella città e negli studi universitari). Gli si fa incontro, dentro quella immobilità nevosa e rarefatta, la seduzione amorosa di Linda, ragazza "di fuorivia". L'amore si compie nell'odore di fieno secco mentre fuori, inesorabile, la neve continua a cadere. Il pericolo aumenta, il governo decide l'evacuazione di tutta la popolazione. Qualche vecchio vorrebbe resistere e rimanere nell'abbraccio sicuro della propria storia, gli altri capiscono che partire è una necessità. Il confronto di generazioni è accorato, emotivo: lo scrittore non prende parte in modo sentimentale, lo registra come un avvenimento. La partenza è un esodo non epico ma a modo suo drammatico: partono uomini, donne, animali, nelle case sprangate e sepolte dalla neve rimangono soltanto i gatti, come diffidenti custodi (si arrangeranno). Quella partenza provvisoria per qualcuno è il segno definitivo di una migrazione, di una mutazione culturale e sociale. I più ritorneranno, riavvolgendo il filo. Gionata, nelle luci nervose della sera di città, avvertirà estraniazione e promesse, comincerà a conoscere i lembi del mondo nuovo (né migliore né peggiore: diverso) dentro il quale crescerà il resto della sua vita. La nostalgia ha un sapore acre: Gionata fa squillare il telefono su nella sua casa chiusa e vuota, dove nessuno lo può sentire, tantomeno i ritratti dei morti; lascia risuonare a lungo la chiamata, tanto per creare un rumore fra le quattro pareti della sua infanzia , finita per sempre: e immagina la gatta fedele che drizza gli orecchi a quel trillo. Il romanzo è bello, quieto nella attenta forma narrativa che mima la calma del nevicare ininterrotto; la storia ha una sua emotività: ma è una commozione sobria. Non c'è nessun sentimentalismo di retroguardia nostalgica ma c'è una tenerezza asciutta di fronte a questo passaggio di vita, a questa nuova nascita del protagonista oltre la placenta nevosa che lassù, assieme alla gatta, custodisce la giovinezza andata. Qui, ora, c'è il presente da decifrare. C'è la vita.