Claudia Quadri
Casagrande
L’albergo di famiglia a Paradiso, appena fuori Lugano, sulle prime pendici del Monte San Salvatore, ha accolto l’infanzia e la giovinezza di Claudia Quadri e di sua sorella, assieme ai genitori proprietari dell’hotel e fatti della pasta antica della grande signorilità alberghiera svizzera. Poi le cose vanno come vanno, un giorno l’albergo viene venduto e sarà distrutto e Claudia adulta guarda gli ultimi guizzi di vita di scale, finestre, decorazioni di pavimenti, tappezzerie, piccola archeologia di vita amata, vissuta e perduta, e infine il crollo delle macerie sotto le ruspe. E ora la scrittrice mette mano a una sua “ ricerca del tempo perduto”, con nostalgia ma anche con lucida ironia. Invece del “ragazzo della via Gluck” che rimpiangeva prati e stagioni scomparse, ecco “la ragazza di Paradiso” a rievocare scene di un’infanzia e adolescenza risucchiate dal tempo. Ne nasce questo romanzo che di fatto è una ricognizione totalmente autobiografica ma al tempo stesso è davvero un romanzo perché possiede il canto narrativo assieme alla scrupolosa saldezza di una scrittura accesa, sorvegliata, accurata. In precedenza la scrittrice ticinese, già “premio svizzero di letteratura” nel 2015, aveva scritto romanzi di pura invenzione: “Lupe”, “Lacrima”, “Come antiche astronavi”, “Suona, Nora Blume”. Questa vota, “nel mezzo del cammin di vita sua” Quadri compie un viaggio a ritroso nel proprio tempo privato e racconta il vero, anche se poi, si sa, la memoria filtra, trattiene, nasconde o accende cose, con un proprio arbitrio. Se allora la prima parola del titolo è chiara (infanzia), la seconda (bestiario) va spiegata. Il fatto è che in questo libro ci sono animali piccoli e grandi, domestici o liberi, che senza ingombrare abitano le pagine e la memoria: innanzitutto il fedele cane delle inesauste camminate (e al cane Wisky è dedicato il libro) ma poi anche gatti, cavalli, piccioni, tartarughe, tassi, falchi, lumache, serpenti, lucciole (piccola citazione della figlia dell’autrice: “Perché le stelle sono così basse, stasera?-, ha chiesto Neda, bambina, la prima volta che ha visto le lucciole”). Quegli animali sono i testimoni delle ore vissute e raccontate, con la loro presenza discreta, misteriosa e silenziosa, spesso eloquente più della parola. Il libro contiene piccole storie, aneddoti, scaglie di memoria, tenerezze e tristezze, con un persistente soffio affettivo per le figure dei genitori così essenziali, così necessari nella narrazione come lo furono nella infanzia e giovinezza dell’autrice. Alcune scene sono anche esilaranti, come quella della ragazza in bikini in groppa a un cavallo imbizzarrito che si ritrova in piena autostrada… Altri attimi sono intessuti con la malinconia, altri con i lampi di curiosità e le emozioni che appartengono all’età breve e decisiva degli anni freschi. Oltre agli animali hanno una loro presenza forte, nel romanzo, gli alberi, la natura: alberi antichi e maestosi, alberi uccisi, mangiati dall’avanzata dell’esercito edilizio. Pesco un breve brano che dice quello struggimento e al tempo stesso rivela la cura stilistica della scrittura: “Oggi sappiamo che gli alberi comunicano tra di loro. Malgrado in superficie tronco e chiome non esistano più, le radici di questi alberi fantasma sono ancora vive. Cosa si dicono, ora, nell’alfabeto Morse dei miceti, delle ife? Il lamento silenzioso dei grandi alberi tagliati si srotola nel sottosuolo, sotto le nostre scarpe, gomitolo triste che viaggia da un albero all’altro, che racconta la ghigliottina, l’acciaio della lama”. Claudia Quadri ha lavorato di ago e filo per cucire insieme i fiotti della propria memoria: “L’ago serve a ricucire gli strappi. È una richiesta di perdono. Non è mai aggressivo. Non è uno spillo. Ricucire gli strappi nel paesaggio dell’infanzia prima che si laceri del tutto: può darsi che i miei vagabondaggi, travestiti da passeggiate con il cane, siano ormai un lavoro di sartoria: camminare, rammendare”. Ecco, Claudia Quadri ha fatto un’opera finissima di rammendo, per salvare dalle macerie del tempo il proprio tempo, di quando “tutto era in attesa, acquattato nel futuro”. E il futuro sarebbe diventato l’oggi, sarebbe diventato questo libro che salva il passato.
Marco Missiroli
Einaudi
Rimini invernale, fuori stagione. Mare freddo e intoccabile, ombrelloni riposti, vento gelido, nebbie, niente bagnini e pedalò, resta la gente romagnola del posto, un Amarcord fellinano negli anni duemila. È lì, nella sua cittadina rivierasca natale che ritorna Sandro, giovanotto di belle speranze e poca concretezza, universitario precario e pubblicitario part time, dominato da una insana passione per il gioco (poker pesante) che lo ha ridotto sul lastrico. Sandro torna a casa, dove sta il padre, Nando Pagnoncelli, vedovo fresco di una moglie molto amata, ferroviere in pensione, ballerino da balera per diletto. Sandro è una specie di figliol prodigo che torna ad annusare l’odore di famiglia dopo aver dissipato molto. Il rapporto col padre viene ricucito fra silenzi e chiacchiere caute, tenerezze sorvegliate e a poco a poco intimità crescente dettata anche dal fatto che Sandro vuole tirarsi fuori dalla sua passione per il poker e cercare di vivere sul serio, anche magari con una ragazza giusta, mentre Nando si infragilisce, gli anni e la salute lo minano. Sta tutta quanta qui, nella sua semplicità mite, compassionevole, simpatica, qua e là comica ma anche drammatica la storia di questo romanzo affettivo e generazionale. Nando la sera continua ad andare a ballare, quasi di nascosto, per mantenere viva la fiamma amorosa per la moglie morta, che gli fu cara compagna e di balera. Padre e figlio vanno spesso al cimitero a raccogliersi sulla tomba di quella donna che entrambi hanno amato e che ora li ha lasciati da soli con le loro solitudini intrecciate. Il rapporto padre-figlio potrà essere forse salvifico per il figlio, il quale conosce davvero la natura buona e vera del genitore proprio quando quest’ultimo si indebolisce e si fa più fragile e candido. Nelle piccole cose, nelle piccole cure, nella tenerezza ombrosa stanno spesso i segreti delle rinascite. Marco Missiroli, scrittore camaleontico che ogni volta assume colori e timbri narrativi diversi per raccontare storie nuove, qui scrive la sua Rimini fuori stagione con un linguaggio diretto e chiaro, speziato da lampi riflessivi, pigli gergali, risonanze generazionali. Accanto ai due protagonisti si muovono pochi personaggi modellati in creta autentica, fra cui un prete genuino che sembra un don Camillo romagnolo. Una bella storia di affetti ammaccati ma autentici, raccontata molto bene.
Jacques Chessex
Armando Dadò editore
Perdonami, madre, perché quando eri viva io non ho trovato il tempo di dirti quanto ti amavo e adesso tu non ci sei più e voglio dirtelo quando ormai è troppo tardi, ma provo lo stesso: questa, asciugando, potrebbe essere la sintesi del romanzo-confessione di Jacques Chessex, scrittore svizzero romando, vodese. Non è nuovo in letteratura certo rimorso con lacrime tardive di maturi maschi distratti da egotismi intellettuali e narcisismi e a caccia di seduzioni nei confronti di una madre venerata da morta ma distrattamente trascurata da viva. Lo dice bene, nell’ottima prefazione a questo strano e anche commovente romanzo del 2006 pubblicato ora in italiano dall’editore Dadò, la sua traduttrice, la studiosa di letteratura Annalisa Izzo. Fra gli esempi da lei evocati spicca “Le livre de ma mère”, di un altro svizzero, Albert Cohen, il quale nel 1954 si dolse fortemente, con uno struggente sfogo intimo, della propria indifferenza verso la cara madre quando lei era ancora viva, con lui tutto preso da vanità e amori effimeri. La stessa, quasi identica parabola di rimpianto e di lacrime di coccodrillo (versate peraltro con grande tenerezza e profondo turbamento interiore) la compie nel 2006 Jacques Chessex, con il suo “Pardon mère”. Chessex (1934-2009) fu scrittore importante, forte e disturbante, fra l’altro laureato con il prestigioso premio francese Goncourt nel 1973 per il romanzo “L’Ogre”. I suoi libri sono spesso incupiti, sinceri fino alla sconvenienza e alla sgradevolezza e senza compiacimenti facilitanti. La sua scrittura risale ai tormenti esistenziali di un uomo difficile che non fa sconti a nessun lato oscuro dei suoi personaggi, spesso con forti accenti autobiografici. Invece in questo libro dedicato alla madre scomparsa Chessex si intenerisce fino a mostrare la sua fragilità più indifesa, in una autocritica tardiva ma sensibile, delicata, appassionata e volta a una pacificazione. La vita, come si diceva, riserva spesso a uomini intellettualmente e vitalisticamente frenetici e un po' egoisti una distrazione colpevole, in età adulta, nei confronti della madre, così tanto amata invece nell’infanzia, nei soliti mix di abbandono fiducioso e di rimandi edipici. Chessex confessa palesemente questa sua dimenticanza nei confronti di una madre buona, distinta, signorile, discreta, di buona società borghese e forte senso morale, proprio lei che ha amato per tutta la vita senza dubbi o indugi quel figlio che tanto clamore imbarazzante aveva sollevato con i suoi libri un po’ scandalosi e con tanti atteggiamenti provocatori o rabbiosi. Soltanto quando la carissima mamma muore, molto anziana, l’autore si rende conto di quanto lui, quando si illudeva di avere davanti a sé tantissimo tempo per farlo e quindi non si era messo fretta, avesse dimenticato di dire alla madre quanto lui la amasse. Ci vorranno cinque anni di struggimento e un sofferto lavorìo interiore e infine un libro drammatico e salvifico al tempo stesso per pacificare quella ferita. Nella sua bella introduzione Annalisia Izzo inquadra l’opera dal punto di vista letterario e psicologico e commenta la forza stilistica della prosa di Chessex, fiorita di affondi lirici che rendono più vera e vibrante questa narrazione accorata e privata. Nel breve video presente nel nostro sito ci sono alcune citazioni di brevi ma eloquenti passaggi del libro (che qui non si ripetono) quali lampanti prove della forza affettiva e lirica, tormentata ma anche piena di speranza, del testo di Chessex. C’è, nella “lettera” accorata e postuma alla madre, un afflato di natura palesemente religiosa, nel senso non confessionale ma piuttosto cosmico. La madre, che in vita amò la natura (campi, orti, piante e uccelli) assume ora le sembianze addirittura della stessa misteriosa “madre natura”e diventa la speranza di un collegamento, di una ricucitura tra figlio e mamma in un aldilà dove lei lo sta aspettando. Un libro intimo, questo di Chessex, una confessione senza sconti a se stesso.
José Saramago
Feltrinelli
Facciamo così: le ultime nove righe (della edizione italiana) del romanzo “La vedova” di Josè Saramago il lettore, se vuole, le potrà annullare: come se non fossero state scritte. L’autore invece le ha scritte, volendo dare un colpo di vento improvviso e impetuoso alla sua storia. Ma i libri, si sa, li scrivono gli autori ma poi appartengono ai lettori. E ognuno quindi, se non se la sente di seguire le ultime nove righe (che risultano coì spiazzanti da togliere il fiato) si fermi a quelle in cui Maria Leonor, la vedova poco allegra (ma talvolta desiderosa) rinuncia a cupi propositi e decide di affidarsi alla pulsione preziosa della vita. A contare, di questo primo romanzo del venticinquenne José Saramago (nato 100 anni fa, morto nel 2010) non è tanto il finale quanto invece la forza narrativa dell’intera storia, in un connubio fra passioni umanissime e pulsanti e moralismo frenante sullo fondo di una natura sontuosa, cosmica, avvolgente. Saramago, portoghese, premio Nobel per la letteratura nel 1998, fu autore di grandi romanzi memorabili. Ma qui per la prima volta viene tradotto in italiano da Adelphi questo suo primissimo romanzo, uscito nel 1947, e che allora in Portogallo non ebbe molto successo. Eppure, leggendolo, si traggono due giudizi immediati. Il primo è che si capisce bene che lo scrittore sta iniziando un suo percorso narrativo e per il momento si attiene alla struttura tradizionale di romanzo, quando poi invece si scoprirà negli altri più maturi libri tutta la forza dell’allegoria, dell’allusione simbolica, della potenza immaginativa e del graffio civile. Il secondo giudizio è che subito ci si trova già di fronte a un talento sicuro e originale di scrittura che con grande forza sa risvegliare voci interiori e moti d’animo, confessabili o meno, dalle donne e dagli uomini e voci ancestrali dalla terra. Siamo nel Portogallo rurale, in un tempo in cui non ci sono ancora automobili ma già sbuffa il treno a vapore. In una grande tenuta di campagna (vaste terre, padroni, servitù e contadini) muore il padrone, ancora giovane, lasciando vedova con due bambini la piacente e affranta Maria Leonor. Su tutta la tenuta cala la cappa del lutto più cupo. Maria Leonor, smarrita e sofferente, cerca di tener stretta la voglia di vivere con i denti, pensando soprattutto al bene dei suoi bambini, così desiderosi di vita piena e chiara. Poi però succede che Maria Leonor comincia a percepire, con antenne femminili e misteriose che lei stessa non sa di possedere, il profumo di una possibile sensualità, di vaghe linfe di inquietudine che entrano in vena. Affacciata al balcone nelle calde notti del sud sente odori di fieno, di nettari di fiori, di vento torpido. Spia da lontano, intrigata, i maneggi amorosi di un giovanotto contadino e di una giovane serva. Nella sua magione appaiono due personaggi maschili, due signori entrambi medici ma diversi tra loro, che intercettano il turbamento di lei e altro glie ne procurano, magari solo per allusioni, gesti goffi e bruschi. Ma a vigilare come una rigida sentinella di morale sta l’enigmatica figura della governante - domestica di sempre, Benedita, la quale, servendo la padrona cui è fedelissima, tuttavia non le permette nessuno sgarro alla luttuosa moralità richiesta dalle circostanze. Benedita è il simbolo incarnato del moralismo retrivo, forse potrebbe persino essere una parte inconscia e impaurita di Maria Leonor stessa. Questo duello silenzioso fra desiderio sensuale e naturale e barriere moralistiche si iscrive in una natura che è sensuale essa stessa, rinascendo con rigoglio primaverile e poi con possente respiro estivo quasi come un cuore misterioso e segreto di vita cosmica che sempre batte, nella sensualità della terra divampata dopo il gelo. In mezzo, ridono, si muovono, giocano, sognano, esplorano e crescono i bambini, vita candida non ancora intaccata dalle costrizioni.
Nancy Mitford
Adelphi
Chi ha letto « Rincorrendo l’amore », di Nancy Mitford (nel nostro sito trovate un video e una recensione) può affrettarsi a leggerne una sorta di continuazione, nel senso che l’Io narrante di quel primo romanzo, la ragazza e poi la donna Fanny, continua nel tempo la esplorazione attenta dei pasticci e del destino di un’altra amica che le è cara, dopo averlo fatto, in “Rincorrendo l’amore” con la cara cugina Linda. Questa volta lei è la scrutatrice affezionata dell’amica Polly, figlia unica, testarda, bizzosa e imprevedibile di una coppia aristocratica e molto ricca. La madre è egoista, presuntuosa, saccente, energica, un po’ nevrotica. Vorrebbe che la figlia abbia successo, si sposi bene, rifulga di luce e potere come lei stessa ma nel contempo la vuole pilotare e dominare e vive con lei uno di quei classici rapporti difficili fra madre e figlia in continuo scontro di caratteri e in lotta di potere psicologico una sull’altra. E tutto questo nonostante il legame affettivo, che perdura. In quanto al padre, beh, il padre è un nobile signorile, elegante, ammirato ma vacuo: un guscio raffinato che contiene poca polpa di intelletto e genio, un vecchio signore rispettato che odora ancora di Impero, ma la sua statura morale e intellettuale è come atrofizzata, imbalsamata. In mezzo a quei due genitori Polly cerca la propria via di scampo, attizzata dal suo amor proprio spiccato, dal suo desiderio di autonomia. E così la ragazza spariglia le carte dei genitori, sceglie un uomo sbagliato, fa la vita che vuole, irride le mire della madre. La Mitford ancora una volta racconta trame stravaganti di personaggi eccentrici e ne approfitta per una critica umoristica ma anche acida della società inglese benestante ed estenuata, viziata e incerta, in un’aura di tempi che mutano in fretta. Questa volta accanto all’Inghilterra dell’aristocrazia rurale e agli splendori della Londra ricca appaiono anche le pulsioni british per la bella Italia e per lo spirito di Parigi, tappe obbligate delle scorribande dei danarosi inglesi, anche nei decenni di primo Novecento (fra una guerra e l’altra…) descritti dalla Mitford.
Peter Stamm
Casagrande
Andarsene via. Fuggire da una vita quotidiana e ben scandita, quietamente piacevole e affettivamente rassicurante, per spiccare un balzo, una fuga improvvisa, una sparizione. Un “second life”. È quello lo scoppio iniziale e subitaneo del nuovo romanzo di Peter Stamm, sessantenne scrittore svizzero fra gli autori maggiori della narrativa contemporanea elvetica. Tutto accade in una sera d’estate, in un borgo della campagna zurighese, quando Thomas e Astrid, serena coppia con due bambini, è appena rientrata dalle vacanze. Scaricati i bagagli e messi a letto i figli, i due stanno sorseggiando un bicchiere serale di vino. In quel momento Thomas esce di casa. Si allontana, cammina, scompare nella notte. Non tornerà più. Il romanzo a questo punto si biforca. C’è la narrazione della peregrinazione di Thomas che nella prima notte di fuga costeggia cauto borghi e villaggi stando ai bordi, fra boschi, sentieri e prati, spiando i paesi addormentati, e poi via via sempre di più, nei giorni e mesi a venire, in uno sperduto camminare ai margini, dentro la natura, sfiorando appena incontri umani, arrabattandosi per mangiare e vivere. Dall’altra parte c’è la narrazione della sorpresa e poi dell’angoscia e dell’attesa di Astrid, che deve far fronte a quella inspiegabile scomparsa, senza che lui abbia detto un parola di spiegazione, lasciato un biglietto. La donna dapprima nasconde la cosa, poi chiede aiuto alla polizia, bisogna dire qualcosa ai bambini, affrontare lo sgomento di questa fuga tremenda, tener duro nel governare figli e casa, vivere con questo lancinante dolore d’assenza e di spiegazione. Il fatto è che Thomas, come ha spiegato lo stesso Peter Stamm intervistato a “Chiasso letteraria”, non aveva apparentemente nessun motivo per andarsene via e affrontare un’altra vita. Lui e Astrid erano una coppia normale, tranquilla. Ma succede davvero, ha affermato Samm citando cronache di vita autentica, che ogni tanto qualcuno venga preso dal misterioso spasimo di una fuga che cambi tutto, che sbalestri il destino. In molti, perlomeno, talvolta immaginano questa possibilità, che poi non accade. Ma qualcuno, anche, la fa accadere… E così il lettore percorre i due scenari contrapposti, quello dell’uomo in fuga e quello della donna che attende, un Ulisse che circumnaviga la Svizzera dei villaggi, delle montagne, degli alpeggi, e poi più in là, e una Penelope che tesse la tela della quotidianità con il morso del perché e dell’attesa. Diciamo subito che poi l’epilogo è volutamente ambiguo, misterioso, bifido. Thomas non tornerà più, verrà dato per morto. Oppure torna? Oppure è Astrid che sogna e immagina un ritorno? Oppure (oso la sfida soggettiva dell’interpretazione) è Thomas che sogna la propria fuga? O si tratta semplicemente di un doppio o persino triplo finale? Soltanto la letteratura può permettersi di lasciare sospesi i fili dei destini e doppiarli (nella vita non va così). Al di là di questo dubbio sull’esito, che in taluni lettori desterà perplessità, la forza di questo breve romanzo sta soprattutto nella scrittura: la forma qui è sostanza, con un linguaggio lucido, scandito in presa diretta e fisica sui paesaggi e sui tempi, in un realismo descrittivo che accende fondali, luci, colori, sensazioni. Thomas incide i suoi passi nella natura, sale su su fino a lambire i ghiacciai, poi rientra in un mondo che gli è estraneo ma con cui deve scendere a patti per vivere. Astrid rimane la guardiana della casa e della normalità, ferita dallo strappo, tenace nel resistere, mai persuasa dell’apparente ineluttabilità della fuga di Thomas. Il quale forse scompare davvero per sempre lassù in altura, oppure no, corre via nel mondo ad invecchiare per conto suo, oppure magari, chissà, torna a casa. Forse non ha cessato mai di amare Astrid e i figli, a modo suo. E Astrid non ha cessato di amare Thomas. Sarà anche un po’ troppo enigmatica questa storia, ma è scritta benissimo e fa camminare e palpitare il lettore che rincorre Thomas per monti e valli e sta accanto con compassione ad Astrid ferita e non crollata.
Nancy Mitford
Adelphi
Di fresca traduzione presso Adelphi, ecco ripubblicato in italiano un romanzo delizioso che ha compiuto 77 anni. E non li dimostra, perché dalle pagine sprizzano scintille di humor intatto, di ritratti implacabili, di giudizi lucidi e assolutamente contemporanei alla nostra sensibilità di oggi. “Rincorrendo l’amore” fu pubblicato da Nancy Mitford in Inghilterra nel 1945. Nancy era una delle celebri sorelle Mitford (erano sei!), figlie del barone David Freeman-Mitford e famose per eccentricità, intelligenza, stravaganza e anticonformismo. Lei fu appunto la scrittrice, quella che scriveva romanzi in modo acuto e impertinente. Siamo nell’Inghilterra negli anni '30, la Gran Bretagna è ancora un Impero ma sta scricchiolando, c'è di nuovo odor di guerra e la scena è quella di una grande e bislacca magione di campagna retta da una bizzarra famiglia della piccola aristocrazia terriera. A colpi di humor e di bozzetti quasi surreali Mitford affonda la sua lama sottile nel corpo molliccio della buona società inglese e non fa sconti a nessuno: né ai conservatori imbolsiti, tradizionalisti e retrogradi, né ai marxisti da salotto, né ai perbenisti in corsa verso denaro, carriere e matrimoni vantaggiosi. Riesce persino a darci la caricatura (e son passati più di 70 anni!) del salutismo esasperato e del "politicamente corretto". I protagonisti principali sono tutti abbastanza stravaganti e dalla noia li salva l'eccentricità. Le ragazze sognano naturalmente l'amore, soprattutto la principale protagonista, Linda, viziata, volubile e sventata ma anche coraggiosamente libera e a modo suo pre-femminista. A raccontare tutto, e a mettere a fuoco soprattutto i desideri e il destino di Linda è sua cugina Fanny, un “io” narrante affettuoso e attentissimo alle piste psicologiche e alle bizzarrie di tutti i personaggi. La stessa Fanny (e questa è una avvertenza per i lettori che vogliono fare bene le cose) sarà poi la protagonista narrante del romanzo “L’amore in un clima freddo”, già pubblicato tempo fa da Adelph (questa volta occupandosi di un’altra ragazza stravagante, l’amica Polly, ricchissima e indomabile) Ma bisogna iniziare da “Rincorrendo l’amore”. Per chi vorrà, c’è un un terzo romanzo, e questa volta Fanny parla di se stessa: “Non dirlo ad Alfred” (sempre Adelphi).
Anne Tyler
Guanda
Anne Tyler, 80 anni e 25 libri all’attivo, è una dei maggiori narratori americani viventi. Grande studiosa e ammiratrice di Checov, sembra averne ereditato la curiosità minimalista e attenta per le trafitture affettive, psicologiche e sociali della quotidianità. La sua scrittura ha uno sguardo minuzioso per i dettagli, i piccoli scarti di umori, i gesti, le atmosfere. Anche in questo suo ultimo romanzo, come sempre puntualmente tradotto in Italia da Guanda, il lettore ritrova il solito “gusto” tyleriano e la sua lezione narrativa: il battito sommesso della vita apparentemente comune snoda adagio adagio le enigmatiche piste dei destini e la complessità sfuggente dell’esistenza. Tyler ha sempre raccontato piccole ballate di esistenze normali, o quasi: storie di famiglie con ammaccature o stranezze, coppie ai bordi della stanchezza, vite individuali. Anche questa volta la scrittrice mette a fuoco un “interno di famiglia”, spalmato però lungo l’arco di oltre cinquant’anni. Dallo squarcio iniziale con due fidanzati che stanno viaggiando da Philadelphia a Baltimora si balza indietro alla fine degli anni ‘50, sempre a Baltimora, che è la città di Anne Tyler e dove si svolgono tutte le storie dei suoi romanzi (una Baltimora poco urbana e centrale, più periferica e sommessa). Robert e Mercò Garrett, marito e moglie e genitori di due figlie adolescenti e un figlio più piccolo, decidono di fare una rara vacanza, una settimana in riva a un grande lago. Quella vacanza, descritta da Tyler con minuzia attentissima, ci immette in un realismo narrativo che quasi in tempo reale racconta paesaggi, rive boscose e acqua fredda, atmosfere e persone, umori, primi innamoramenti giovanili, eccentricità del ragazzino, mutevolezze di carattere dei genitori. Poi i figli crescono e “le mamme imbiancano”, ma la mamma Mercy ha anche qualche scatto di misurata ribellione, lei ama dipingere, si fa un atelier in proprio, fugge un po’ via, il marito mite abbozza, dopotutto la famiglia tiene, con tutti i suoi umori problematici, le sue eccentricità, le malinconie date dai destini sparigliati, dai temperamenti, dal fatto stesso che il tempo inesorabilmente passa. Tyler è bravissima, per fare un esempio, nella scena in cui l’intera famiglia sta aspettando che dopo mesi di silenzio lontano da casa sta per tornare in visita l’enigmatico figliolo giovanotto, che era sempre stato single, il quale ha scritto che porterà con se una donna: curiosità, attesa pettegola, congetture, ansia, cordialità studiata. Anne Tyler si conferma dunque attenta osservatrice (quasi come un’entomologa che studia una specie) dei comportamenti umani consueti, scanditi nell’allure di commedia e di drammaticità della vita comune in cui giorno dopo giorno i dettagli del quotidiano si trasformano nella vita intera. In questo ultimo romanzo Tyler ha forse aggiunto qualcosa di troppo, per esempio qualche snodo che vira sul patetico (nella parte finale) e sempre sul finale con un po’ di cedimento al “politicamente corretto" e, poco adatto al timbro della scrittrice, un tuffo nell’attualità stretta in pieno lockdown da Covid. Si poteva evitare.
Sabina Zanini
Gabriele Capelli editore
La persona (non sappiamo, almeno per lungo tempo di lettura, se sia maschio o femmina) protagonista del monologo-soliloquio del romanzo nuovo e sorprendente di Sabina Zanini non ama il mondo in cui è costretta a vivere e lavorare: la banca, i colleghi, i ritmi, le ambizioni e le furbizie, il ronzio delle accelerazioni di iperattivismo e socializzazione obbligata. Sabina Zanini, giornalista alla Radiotelvisione svizzera, esordisce nella narrativa raccontando in un flusso continuo – di fatto senza trama ma con un impressionismo di notazioni e riflessioni soggettive – una forma contemporanea di alienazione. La persona protagonista del romanzo non ci sta al gioco ma deve giocare, non vorrebbe far parte del gregge social-bancario compulsivo e robotico, della folla consumatrice e ansiosa. Deve per forza guadagnarsi il salario ma lo fa in punta di piedi, stando ai margini dell’agitazione. Il suo compito è di valutare se la banca debba concedere dei crediti a dei richiedenti: una faccenda delicata, in cui la persona non vuole mettere troppo il cuore e la passione. Le cose devono funzionare, ma senza affannarsi e senza mettersi in gioco. Pausa pranzo? Colleghi in sciame a mangiucchiare e pettegolare? No, di certo: via subito dal gruppo, in solitaria, sbocconcellando qualcosa in luoghi appartati. Questo rifiuto del mondo rasentando per forza il mondo trova una consolazione privatissima soltanto fra le quattro pareti di casa, quando a soccorrere quel che resta del cuore libero giunge la musica del violino, e in particolare quella di Niccolò Paganini. Quella è la salvezza di arte e ingegno, libera voce in libera emozione. Al di là dell’assunto del romanzo – una critica immaginata in modo volutamente simbolico e quasi patologico e morboso alla società della convulsione mercificata e banalizzata – a colpire è la espressività della narrazione, in cui ai fraseggi di realismo minuzioso (le ore, i gesti, i luoghi, le persone) si mescolano gli acuti di rapide riflessioni profonde, piccole sentenze seminate ad arte. La persona così ribelle all’alienazione sociale - anzi, la scrittrice stessa – possiede una bella riserva di curiosità culturale e di conoscenza, e lo si capisce benissimo. A parte il soccorso della musica di Paganini, traspaiono passioni colte e singolari, come per esempio la stima ben documentata per la cultura ebraica, segno di sensibilità intellettuale. Un bell’esordio, una sfida di racconto abbastanza coraggiosa e singolare. Per questo romanzo Sabina Zanini ha vinto nel 2021 il premio Studer/Ganz, importante riconoscimento svizzero alle opere prime.
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