Circolo dei Libri

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25settembre
2020

Philip Roth

Einaudi

Philip Roth, il grande scrittore americano (1933-2018) racconta da par suo la drammatica epidemia di poliomielite che nel 1944 colpì la sua città di Newark. Ci sono, nell'esperienza di quella tremenda epidemia (che Roth visse di persona, ragazzino) lo sgomento, l'incertezza brancolante, le paure, i sospetti, le psicosi di ogni evento grave e non controllabile: l'epidemia attuale di Covid 19, pur con tutta la sua diversità, ripropone nondimeno lo stesso sconcerto, la stessa grave inquietudine collettiva, di società. Ma il romanzo di Roth, anche se non tralascia questi aspetti collettivi, punta in modo diretto all'esperienza piscologica, mentale e morale di un protagonista sopraffatto da quell'evento fino ad assumerne la drammaticità nella propria linfa di anima e di corpo. Quel personaggio è un insegnante di sport, Bucky Cantor, chiamato quasi sempre Mister Cantor, un giovanotto ebreo di bella prestanza fisica ma riformato dall'esercito a causa della vista troppo bassa. Mr. Cantor vede ammalarsi di poliomielite e talvolta morire i suoi allievi, cui è profondamente affezionato; un giorno prende parte allo strazio dei genitori del dodicenne Alan, appena morto, fa loro visita a casa, si accosta al funerale di quel ragazzino: "Dentro il carro funebre Mr. Cantor vide il feretro. Impossibile credere che Alan giacesse in quella disadorna, pallida cassa di pino solo perché si era preso una malattia estiva. La cassa da cui non esiste via di fuga. La cassa in cui un dodicenne resta per sempre un dodicenne. Il resto di noi sopravvive e invecchia, ma lui continua ad avere dodici anni. Trascorrono milioni di anni, e lui ne ha ancora dodici." Crudo, lancinante il pensiero secco e diretto di Mr Cantor sul terribile mistero della morte e l'ineffabile enigma del tempo. Non c'è spazio in quelle righe per spiragli di speranza o domanda di senso. Qui lo sgomento umano di fronte alla morte è soltanto narrato, in una geniale sintesi, senza nessuna prospettiva di giudizio. Il morso della morte è spesso cosi: annienta la capacità di speranza di andarci oltre. La morte cristallizza nella sua giovane età quel ragazzino, stretto dentro la sua cassa di legno. Una riflessione umanissima, quella di Mr Cantor, ma non bastevole a contenere tutta la domanda umana sulla morte. "Nemesi" è appunto anche e forse soprattutto un romanzo sulla vita e sulla morte, sull'assurdità del male come disgrazia che incombe addosso alla natura umana, non necessariamente per responsabilità umana. A specchio rispetto a quell'esperienza di dramma imprevisto, Mr. Cantor deve rispondere, lacerandosi, al richiamo della sua fidanzata Marcia, la quale sta al sicuro in un campeggio di tipo scautistico, in montagna, e lo esorta a scappare dal morbo e a raggiungerla lassù. La trama rivelerà le scelte e i tormenti interiori di Bucky Cantor e il lettore seguirà il filo intenso di quello svolgimento, narrato da Roth impeccabilmente (anche con il piccolo stratagemma narrativo di passare da una terza persona narrante a un "noi" e a un "io) seppure in modo parecchio diverso rispetto al solito piglio amaramente ironico e urticante ("Nemesi" è l'ultimo suo romanzo, del 2010: per altri 8 anni, fino alla sua morte, Roth non scriverà più nulla). Mr. Cantor è ebreo, come del resto ebreo (vistosamente laico) è Roth. Il senso di colpa di Bucky Cantor rispetto al male del destino sembra incarnarsi, fra ribellione e impotenza, in una sensibilità storicamente molto ebraica, che ricorda le lamentazioni di Giobbe ma anche il peccato di superbia di chi osa sfidare Dio e quasi sostituirsi a lui (da Lucifero ad Adamo ed Eva"…). L'enigma del bene e del male, il destino (dettato dal Caso o da Dio?) il senso di colpa e quello di ribellione, tutto si impasta nel giovanotto Bucky al quale un suo interlocutore imputa di comportarsi come se lui avesse 7.000 anni di età, vale a dire i millenni di tutta la civiltà ebraica.