Circolo dei Libri

Per condividere con altri il gusto della lettura, che per principio è individuale ma poi può anche farsi compagnia.

29marzo
2019

Cesare Pavese

Einaudi"‹

1950: a inizio primavera, usciva "La luna e i falò" di Cesare Pavese". Pochi mesi dopo, ad agosto, lo scrittore si tolse la vita a Torino. A nulla era valsa la soddisfazione, due mesi prima, per aver vinto il premio Strega (per il precedente romanzo "La bella estate"). Sfiduciato, ferito dal suo amore non corrisposto per l'attrice Constance Dowling ma anche profondamente corroso da un suo male di vivere, Pavese scelse di non vivere più. 70 anni da una morte amara e triste ma anche 70 anni di un romanzo importante, la sua ultima opera. In "La luna e i falò" il neorealismo di Pavese si affina in una asciuttezza essenziale, musicata da risonanze dialettali perfettamente innestate. Il ragazzino "bastardo" allevato da una povera famiglia nelle Langhe a inizio secolo, che torna dopo molti anni d'America al paese, robusto e ricco, a rivedere una geografia di terra e d'anima mutata dal tempo passato, non può non richiamare il Pavese stregato da vene di malinconia cosmica, convinto che tutto si giochi nell'età dell'infanzia, quando la spugna dell'Io assorbe tutti gli archetipi del vivere. E, ancora, è un segno dell'inquietudine personale di Pavese il desiderio d'appartenenza, di radici, di ritorno alle care sagome di un tempo anche aspro ma che fu suo: "Un paese ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via. Un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra c'è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti". Ma quando l'emigrato ritorna scopre che le cose, le case, i campi possono consumarsi, guastarsi, che il tempo agisce come un acido lento ma letale. Resta, per fortuna, l'amico di un tempo, Nuto, rimasto solidale e generoso. E insieme i due ricordano i lontani tempi sfumati. Altra estraniazione, quella di essere marginali alla felicità. Le ragazze belle e borghesi figlie del padrone per cui i garzoni lavoravano furono il desiderio inarrivabile di quei ragazzi poveri, che spiavano i passeggi femminili sotto i parasoli oppure conducevanoil birroccio per portare le ragazze alle feste signorili, restando fuori nella notte a guardare le luci nei saloni. Nel cuore rimane il paese dei misteriosi falò delle notti estive del solstizio con la luna enigmatica padrona dei gesti e dei riti contadini. Il ragazzo parte ma giù a Genova sente che sta per perdere quel senso di paese e di sé: "C'era il porto, questo sì, c'erano le facce delle ragazze, c'erano i negozi e le banche, ma un canneto, un odor di fascina, un pezzo di vigna, dov'erano? Anche la storia della luna e dei falò la sapevo. Soltanto, m'ero accorto che non sapevo più di saperla". Il dramma del tempo che passa e dell'inadeguatezza a viverlo è più profondo di quello degli avvenimenti anche dolorosi del romanzo. In Pavese ardeva una domanda, inevasa, di felicità: sempre un passo più in là. Pochi mesi dopo aver consegnato questo suo ultimo romanzo all'editore, Cesare Pavese si tolse la vita, nella solitudine di una camera d'albergo in corso Vittorio Emanuele a Torino.