Circolo dei Libri

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07settembre
2023

Beppe Fenoglio

Einaudi

«Pioveva su tutte le langhe, lassù a San Benedetto mio padre si pigliava la sua prima acqua sottoterra.» Non saprei trovare nella narrativa italiana degli ultimi cento anni un incipit più fulmineo, così scarno e nondimeno completo, lirico e già rivelatore. C’è la terra, dove appena è stato deposto un padre morto, c’è l’acqua benefica o rattristante che scende a bagnare le zolle e a benedire i vivi e i morti. Poi, subito, si continua: «Era mancato la notte di giovedì l’altro e lo seppellimmo domenica, tra le due messe. Fortuna che il mio padrone m’aveva anticipato tre marenghi, altrimenti in tutta casa nostra non c’era di che pagare i preti e la cassa e il pranzo ai parenti». Subito si sente odore di terra contadina, grama di povertà, subito si entra nella temperie di miseria faticosa che permea questo romanzo di vita contadina poverissima in un tempo indefinito di primo Novecento. Pubblicato nel 1954, “La malora “ è forse la prova maggiore e ed emozionate di tutto il filone cosiddetto neorealista della narrativa italiana. Già la struttura dei tempi è perfetta: c’è un inizio in cui si apprende che il padre è morto, poi il giovane figlio Agostino, quasi ancora un ragazzo, riparte sconsolato per il suo lontano luogo di lavoro in un’altra fattoria langarola, poi si torna indietro, a quando il padre ancora vivo e la madre avevano deciso, per la miseria che impoveriva la casa e affamava la famiglia, di mandare Agostino a servizio sotto padrone, a ore e ore di cammino a piedi. Piano piano si risale la china dei mesi passati e si arriva al giungere della notizia che il padre sta malissimo e Agostino viene fatto partire di corsa verso casa e poi c’è quel funerale spazzato dal vento e dalla pioggia e la storia da lì riparte, con il ragazzo che torna dal padrone, gonfio di malinconia. I luoghi sono quelli soliti di Fenoglio (la cui mappa ritroviamo nei suoi romanzi di lotta partigiana (“Il partigiano Johnny”, “Una storia privata”, “Primavera di bellezza”, racconti): siamo su a San Benedetto ma poi anche a Murazzano, Mombarcaro, Monesiglio, Mango, Neive e Alba , la cittadina che per Agostino ha il respiro, il fascino e l’estraneità della grande città.La scrittura è scarna e diretta, possentemente iniettata da risonanze dialettali che fanno del Fenoglio dei primi anni ’50 uno sperimentatore ardito e un precursore riuscito. Fenoglio è limpido nello scrivere, carnale e trepido nell’evocare una miseria contadina ma senza mai cadere in trappole sociologiche o in sentimentalismi accorati. Lo stile è realistico e asciutto e tuttavia accende un moto emotivo di empatia nelle le vene del lettore di fronte all’amara prova di vita povera, di dipendenza economica e sociale dai padroni di cui i contadini sono fittavoli. Si trepida per Agostino, sensibile e lavoratore, legatissimo al suo cerchio famigliare essenziale. Agostino si innamora anche, con pulito trasporto: ma la povertà induce le famiglie a fare i loro calcoli di interesse e il ragazzo sente lo strappo nel cuore, cova in silenzio l’amarezza. Un romanzo triste, allora? Drammatico? Triste certamente, ma con la resistenza di una percezione di bene da custodire. Drammatico anche, nello stridente contrasto sociale, nel solco incolmabile fra ricchi e poveri, nella miseria in agguato dentro le campagne ondulate delle Langhe piemontesi (ma anche ovunque) a cavallo tra fine Ottocento e primo Novecento. E tuttavia si respira, nel romanzo, la tenacia di animi umani non abbrutiti, di segrete speranze nel cuore, di una positività esistenziale e istintiva, di una morale non del tutto soffocata. Compatto, realistico, emozionate, sincero: ecco “La malora” di Fenoglio. Con sprazzi di scrittura felicissimi. Un solo esempio fra i molti possibili: Agostino scende dalle colline in città, ad Alba, per la prima volta in vita sua, col padrone, su un carro trainato dal cavallo, ed è eccitato per quella scoperta che sta per fare: “Io adesso avevo la febbre d’arrivare, ma ce ne volle prima che i ferri della nostra bestia facessero le scintille sul selciato d’Alba, nell’aria bassa”. Un’immagine perfetta: ci sarebbe voluto ancora del tempo nel lento arrancare, prima che i passi degli zoccoli del cavallo, prima attutiti da erba e terra battuta, facessero scintille sulle pietre lisce della città. Una forza lirica. A parte le “esse” sprizzanti di “facessero”, “scintille”, “selciato”, è perfetta la sintesi: “sui selciati d’Alba, nell’aria bassa”, che è un endecasillabo e ha tutta una apertura chiara di “a”, musicalmente, come in una poesia.