Andrea Kerbaker
Guanda
George, signorile gentiluomo sulla novantina, infragilito dagli anni, un po’ stordito da ricorrenti vuoti di memoria, vive in una efficiente e soporifera casa di riposo per anziani nella campagna inglese. Solerti infermiere e infermieri lo trattano bene, se ne curano, lo scortano e lo blandiscono, alzando sempre un po’ troppo la voce (come si fa con tutti gli anziani, per eccesso di cautela a fronte di possibili cali uditivi). Ma a George manca l’aria intorno, lì dentro si sente atrofizzato e, memoria o no, capisce bene che quel luogo è l’ovattata anticamera della fine della vita. La dimora che lui ha dovuto abbandonare sta a poche fermate di bus dalla casa di riposo, in un borgo quieto. E George medita un elegante piano di fuga per tornare a toccare la realtà viva e perduta della sua “casa, dolce casa”. Questo è l’abbozzo e la sostanza stessa del delicato, aggraziato e malinconico romanzo breve di Andrea Kerbaker, scrittore e divulgatore culturale sessantacinquenne di Milano, con ascendenza britannica quanto basta per muovere il suo personaggio fra le colline inglesi. La trama del libro è felicemente lieve come la sua narrazione, il lettore cammina adagio con George, con lui attende trepidamente alla fermata del bus di poter quatto quatto tornare a toccare il cancello della sua cara casa, a varcare la porta della dimora dove ha vissuto anni pieni con la moglie, ora morta, e due bambine che adesso sono diventate adulte e abitano in giro per il mondo e vogliono molto bene al loro papà che però resta “depositato” in quella malinconica casa di riposo dove appena possono lo vengono a trovare ma insomma loro sono molto occupate con le loro vite e famiglie e carriere… Di per sé la vicenda (con la sua esile trama che lasciamo all’avventura della lettura) è abbastanza triste: la malinconica fragilità degli ultimi tratti del viale del tramonto e l’impotenza pigolante della vecchiaia avanzata e della memoria smarrita non mettono allegria, vero? Eppure Kerbaker sa speziare questa mestizia esistenziale con tocchi di empatia e sopratutto di lieve comicità, di piccoli stupori. Nel triste momento in cui si va verso l’epilogo della vita, la vita sembra dopotutto non perdere il suo gusto ineffabile. George vive e pensa, e ricorda, seppure in confusione, e gode e soffre e desidera come tutti, e persino si diverte, ammicca. Kerbaker usa il codice espressivo della tenerezza e della minuzia sensibile dei dettagli, in una continua identificazione compassionevole con George, il quale cerca di respirare ancora un po’ di vita vera. Vede luoghi, incontra persone, sa ancora stupirsi e desiderare. Molto bello è il suo rapporto empatico con una bambina appena conosciuta: due mondi, due epoche, due generazioni lontanissime tra di loro ma accostate in una fiduciosa attrazione. L’innocenza in bocciolo della bambina (che ha davanti a sé un lungo futuro in cui crescere) ha delle somiglianze con quel candore fragile che restituisce quasi una nuova innocenza a certi vecchi dal futuro cortissimo. Il tocco stilistico sapientemente leggero di Kerbaker manda luce buona su emozioni più profonde e sulle ombre ineluttabili della intrinseca drammaticità del vivere. Il soffio del desiderio ultimo di libertà e soprattutto la capacità di stupirsi e di sorridere di George salvano un po’ di bellezza malinconica dentro l’animo di quel gentiluomo smarrito e commuovono i lettori attenti di questo romanzo che, intendiamoci, parla del nostro possibile futuro…
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