Circolo dei Libri

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04dicembre
2021

Paolo Cognetti

Einaudi

Ecco un romanzo che odora di montagna, di bosco, di neve. Paolo Cognetti dopo il grade successo di "Le otto montagne" torna a scrivere una storia di persone e sentimenti in altura, nella stessa "scenografia" intima e maestosa della Valle d'Aosta e della mole del massiccio del Monte Rosa. "La felicità del lupo" possiede, rispetto al romanzo precedente (che aveva una sua tensione psicologica) una maggiore lievità, una leggerezza dettata da pochi personaggi che mescolano in modo sommesso e interiore i loro destini privati. Si respira in queste pagine la stessa aria, per intenderci, sprigionata da molte pagine di Mario Rigoni Stern: sia lo scrittore dell'altopiano di Asiago sia Paolo Cognetti narrano infatti, con un meticoloso minimalismo di sensazioni e caratteri, vicende personali non troppo drammatiche o clamorose dentro la scena materna ed enigmatica della montagna che accoglie quelle trame di vita. Fausto, un quarantenne con indubbio accento autobiografico ma poi lasciato alla libertà della finzione narrativa, per uscire da una delusione sentimentale torna sulla montagna dove ha passato tutte le estati della sua infanzia e giovinezza. Lassù, mettendo fra parentesi la sua vocazione e la sua voglia di essere scrittore, cerca una sosta mentale e decide di fare il cuoco in un ristorante-baita nel piccolo agglomerato alpino di Fontana Fredda. Il ristorante si chiama "Il pranzo di Babette" (un chiaro richiamo letterario e cinematografico) ed è diretto da una donna anche lei approdata lassù da un suo non noto vissuto personale. A fare la cameriera temporanea, Fausto trova Silvia, una ragazza che pure lei ha lasciato la città per cercare una specie di bolla di sospensione e riflessione. Sono tre destini in cerca di un respiro diverso, di una quieta sistemazione interiore per veder più chiaro nella propria vita. Un altro personaggio è invece indigeno di lassù, una ex guardia forestale, cacciatore e sciatore da pelli di foca, guidatore invernale di gatti sulle nevi, detto Santorso, con un debole per il bosco e per la bottiglia. Questi protagonisti e qualche altro raro personaggio si intrecceranno con sensibilità e cautela e il lettore decifrerà il cammino delle loro storie cosi come Santorso segue sulla neve le tracce delle volpi e forse dei lupi: bella la metafora implicita fra la pagina bianca della neve su cui viene scritta la presenza di vita e quella del libro dove scorre la scrittura ("Dove la neve svaniva anche le storie si interrompevano, come le cose che lui sapeva soltanto a metà"…"). Una rivelazione curiosa sta nella scoperta di Silvia, secondo la quale "il clima cambia più rapidamente in altitudine che in latitudine, perciò anche un breve dislivello vale come un lungo viaggio". E così scopriamo che salire solo mille metri di quota (come per esempio da Fontana Fredda su verso i tremila sotto il ghiacciaio) vale come percorrere tremila chilometri e arrivare vicino al Circolo polare artico scoprendo lo stesso tipo di paesaggio naturale. Per il resto la montagna lascia sentire al lettore, in questo romanzo agile, i suoi ritmi di silenzi e suoni, e gli odori ("l'odore del fuoco di larice era il più buono per Fausto; un profumo delle estati d'infanzia che lo riportava sempre a casa"). La montagna per i personaggi del libro non costituisce una cura soggettiva delle loro ammaccature esistenziali: alla montagna in fondo non importa nulla delle persone, la montagna vive in se stessa. Ma lassù le persone possono prendersi meglio cura di se, respirare dentro i segni primari della natura e dentro una più quieta scansione di tempi e stagioni e prender fiato, gerarchizzare meglio le pene e i desideri. Poi il cuore, si sa, ha le sue piste misteriose, e così sulle nevi di lassù ognuno cerca le tracce della propria possibile felicità. Persino il lupo, acquattato nel folto del bosco, cerca la propria. Chi ama la montagna ritrova in questo romanzo un'aria cara e sensazioni profonde, messe in pagina da Paolo Cognetti con una serenità narrativa che respira aria d'altura.