Circolo dei Libri

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29ottobre
2016

Paolo Di Stefano

Rizzoli

Selim è un adolescente. E' egiziano, islamico, di famiglia poverissima. pieno di desiderio di vita. Non si rassegna a un destino schiacciato. E cosi decide di tentare il balzo verso l'ignoto. I pesci sono fatti per nuotare. Sogno impossibile di vita nuova? E' l'acre speranza dell'emigrante, in ogni tempo. Racconta la sua storia in un bel romanzo pieno di sensibilità ed emozione Paolo Di Stefano, giornalista culturale e scrittore importante, di radici siciliane, infanzia e giovinezza in Ticino, ora a Milano al "Corriere della Sera".

Selim deve attraversare un deserto effettivo e simbolico. Ma ce la fa. Sbarca in Sicilia, risale la penisola, arriva a Milano. Vuole imparare in fretta e bene l'italiano, vuole scommettere sul suo futuro, vuole farcela. Lo strappo affettivo, culturale, sociale, è duro. "Sapete cosa mi ha colpito di più mentre viaggiavamo verso Milano? Per prima cosa mi impressionava che mentre la Sicilia, anche se era inverno, aveva la luce del mio paese, in Italia le campagne perdevano colore. Quei colori bagnati e senza colore mi piacevano, e non importava se aumentavano la mia improvvisa voglia di piangere". Qui sta un punto bello e simbolico del romanzo: Selim perde la luce del suo paese, che ancora gli resiste dentro gli occhi nella mediterranea Sicilia. Ma ha la curiosità e il coraggio di gustare altre luci, lo scolorito grigiore della Lombardia invernale. Quella è la sua nuova luce. Che non fa dimenticare quella perduta. Lo stesso varrà per le luci della lingua, della cultura, delle radici antiche e degli approdi nuovi. Le cose cambiano anche interiormente: "Sul treno nessuno di noi aveva mai pensato di rivolgere una preghiera ad Allah. Non mi dispiaceva, anzi mi dispiaceva"…" Selim è in movimento, sta sul treno, sta migrando, è in una terra di passaggio: l'adolescenza, la geografia, dal sud al nord, lo sconvolgente salto di cultura, costumi, realtà economica e sociale. Si accorge che la tensione del passaggio ha affievolito la fedeltà al rito religioso. Un poco se ne rallegra, si sente forse un po' più libero da costrizioni e regole formali, un poco se ne dispiace, dopotutto quella è la sua fede, ogni taglio di appartenenza è doloroso. Se poi la fede è autentica, forse è bene non perderla ma custodirla, seppure con chiarezza laica. Selim arriva in un mondo completamente secolarizzato:"…."A Milano, arrivati alla Stazione Centrale, siamo rimasti qualche minuto a fissare con la bocca aperta e i nasi per aria quella specie di moschea grandiosa in cui si fermano i treni, i marmi, le luci, i lampadari di ferro, le vetrate, i vetri, i balconi, le volte altissime e grigie. Impressionante, impressionante, guardavo in alto senza crederci. Poi in basso senza crederci, poi ancora in alto senza crederci"…".

Come sempre non rivelo nulla della trama, che avvince e anche commuove il lettore. Dico solo che la storia di Selim si intreccia con altre. Pe esempio con quella di Raymon, il quale ha meno passione per la lingua italiana, né per una integrazione vogliosa alla Selim: e si arruffa in espedienti e fallimenti. Un altro che fa fatica è Tawfik, che a un certo punto sbarca anche lui in Italia, pure lui non è della pasta di Selim ma forse se la caverà"… Ruotano anche altri personaggi, cattivi e buoni, persino degli "angeli protettori""… Il romanzo di Di Stefano non è buonista ma realista. L'immigrato non è una icona virtuosa a prescindere. Ma non è nemmeno una persona-oggetto da disprezzare (quante umiliazioni, povero Selim!). Semplicemente, Paolo Di Stefano, che nelle sue ultime opere narrative ha sempre incrociato con l'immaginazione narrativa i nodi veri di dolori sociali e personali veri, sa che un immigrato sfortunato è prima di tutto una persona. Fra mille difficoltà politiche, economiche, demografiche, strutturali, non va mai dimenticato il fattore umano di queste vite che mendicano un riscatto di dignità. In tempi di semplificazioni brutali e impaurite, un romanzo così ( e scritto benissimo) è aria salutare.